Parlare, ascoltare, leggere, scrivere
Questo anno 2016 è stato, per molti di noi e per ragioni diverse, irto di difficoltà, ma non è mai mancata l’attenzione a questa rivista, che è cresciuta di pagine, di contenuti e di qualità.
Nei miei editoriali ho dedicato ampi spazi al valore della parola, con qualunque mezzo espressa, e alla lettura (quindi, soprattutto al libro ma anche al giornalismo, in specie quello destinato ai giovanissimi).
Mi resterebbe da dire molto ancora sul parlare e sullo scrivere, sia a livello scolastico sia a quelli dilettantistici, diaristici e professionali. Non è possibile farlo nell’ultimo “pezzo” dell’anno e spero che si possa sviluppare l’argomento in seguito.
Le forme
L’antica raccomandazione di molti insegnanti “come sai parlare, dovresti saper scrivere” è diventata una perplessità di fronte a varie situazioni culturali, sociali e psicologiche che cercherò di accennare:
– nelle famiglie si usa ancora spesso l’uso dei vari dialetti, assai diversi fra loro sia nella grafia sia ancor più nella pronuncia, e c’è chi propone di insegnarli anche a scuola togliendo così tempo alla conoscenza dell’italiano e di una necessaria lingua straniera (il dialetto dovrebbe essere usato solo dagli alunni delle prime classi della primaria, in modo da non bloccare la possibilità di esprimere i loro pensieri);
– il linguaggio dei giovani si è ridotto a poche centinaia di parole, molte delle quali appartengono ai nuovi gerghi che diventano di moda e mutano velocemente;
– la televisione, che pure amplia la sfera della lingua con parole antiche e nuove, è più vista passivamente che ascoltata con attenzione e riflessione;
– il nostro (di adulti) parlare si è stereotipato, in particolare su un’enorme quantità di inglesismi che a volte impediscono persino di capirci vicendevolmente;
– non si conoscono i sinonimi dei lemmi che si usano, così che abbondano le stucchevoli ripetizioni (ad esempio, pare che non esistano verbi all’infuori di “dare, fare, vedere, stare, andare”);
– la comunicazione fra i giovani si svolge oggi in gran parte sui “nuovi media”, alcuni dei quali posseggono ormai un loro linguaggio creativo (i “messaggini”), altri non comportano la visuale dell’interlocutore e del suo ambiente e spesso si limitano al ciarlare a vuoto.
Per parlare e scrivere nella nostra lingua (la cui ignoranza è causa della perdita di molte possibilità di lavoro), occorre conoscerla e praticarla nelle sue regole ortografiche, grammaticali e sintattiche: basterebbe, ad esempio, notare e far notare gli sfondoni che escono dalla bocca degli intervistati, e a volte degli stessi giornalisti.
In particolare, ciò che segue è diretto soprattutto agli insegnanti, tenendo conto della grandezza del problema: nel 2016, la popolazione scolastica è stata di 7.816.408 allievi nelle scuole statali e 939mila nelle paritarie, così suddivisi: 978.081 nella scuola dell’infanzia, 2.572.969 nella primaria, 1.638.684 nella secondaria di I grado e 2.626.674 nella secondaria di II grado. Gli alunni riconosciuti diversamente abili sono 224.509
Per l’ortografia occorrerebbe puntare a eliminare almeno gli errori più comuni (qual’è, coscenza, inicuo, pò, vadi, l’uso della H, ecc.).
Per la grammatica, si badi all’uso più che enunciare regole, l’importante è che il discorso fili; intendo dire, ad es., che l’alunno può anche non sapere la differenza tra un aggettivo e un aggettivo sostantivato; è importante che li usi in modo proprio.
Per la sintassi… occorre studiarla, correggendo anche gli errori nel parlare senza paralizzare colui che si sta esprimendo: può essere utile la correzione collettiva in classe:
I contenuti
È sempre utilissimo insegnare la regola giornalistica delle “cinque domande”: chi, che cosa, dove, quando, perché, che è in ogni caso una buona traccia sia per riferire sia per immaginare. L’invito a tenere un diario personale ha importanza sia per la presa di coscienza di sé, sia per rendersi conto del fluire del tempo, sia per accrescere le doti di osservazione e di espressione.
Occorre poi sviluppare una scrittura che non solo riferisca o esprima, ma sia capace di creare. Occorre saper educare la fantasia, e non solo nella scrittura, ma nella scelta delle letture, nei giochi, nei progetti, nel disegno e in ogni arte. Ad es:, la fiaba è il luogo ove tutte le ipotesi sono possibili, quindi è il luogo della massima libertà dello spirito
Siamo avvolti dal materialismo, dalle esigenze sociali, dai giocattoli che fanno tutto da soli, dalla fruizione passiva dei media. La fantasia invece ci aiuta a colorare il mondo grigio di oggi, interpreta le esigenze di meraviglioso e di gioco dei bambini, spezza la rigidità degli schemi mentali abituali e quindi rende più liberi (fantasia e umorismo sono modi di vedere ‘l’altra faccia della realtà’, quindi sono modi di rafforzare la resilienza).
Per accrescere le possibilità di pensare e di scrivere occorre coltivare alcune doti: 1- uscire dagli schemi di pensiero abituali (fluidità; ad es. inventare una scuola dei maghi); 2 – stabilire rapporti diversi, nuovi, fra le cose e le persone (originalità: ad es. inventare un gioco su scope volanti); 3 . scoprire o provocare nuovi problemi là dove in apparenza non ve ne sono (sensitività, ad es. trovarsi di fronte a un imprevisto che blocchi la storia ed obblighi a trovare una diversa soluzione); non cercare ciò o chi è eguale ma ciò o chi è differente e può darci qualcosa di nuovo.
La personalità creativa è quindi non conformista, curiosa, disponibile al nuovo e persino all’imprevisto, è affamato di parole da conoscere per potersi esprimere, ristruttura ciò che ha conquistato (parole, nozioni, esperienze, conoscenze). E non si accontenta di avere, di udire o di leggere una risposta esatta ma ne cerca altre originali.
I libri e la vita
Su Social Science & Medicine, la rivista Panorama (12.1.2017) ha scoperto una ricerca dimostrante che… chi legge vive di più. La lettura, non importa di cosa, allunga la vita, e i “lettori forti” vivono di più (maggior senso di benessere, evasione dagli stress, intelligenza, empatia ecc.). Che si debbano a questo i miei quasi 92 anni?
E quali sono i libri più diffusi, i più venduti oggi’? Non scervelliamoci pensando ai classici o a Harry Potter, la risposta è più ovvia: i manuali scolastici. Entrano in tutte le case, anche quelle in cui gli adulti sono analfabeti o non-lettori abituali. I bambini non possono esimersi dal porre domande e dal far vergognare gli adulti che non sanno rispondere.
Il guaio è che i testi sono scelti dagli insegnanti sulla base di ciò che piace a loro e non sui gusti degli alunni. I criteri di scelta sono drammaticamente contrari: gli insegnanti (almeno fino a tutta la scuola media) si fanno attrarre dall’abbondanza delle pagine e dallo splendore delle illustrazioni (che, a parte un superficiale effetto estetico, non verranno usate nell’insegnamento perché quasi nessuno sa “leggere” una foto o un disegno), e dall’offerta sempre più ampia di sussidi suppletivi, sia cartacei sia digitali, che verranno usati poco e male; dal canto loro, gli alunni vorrebbero manuali meno voluminosi, linguaggio essenziale, periodare ordinato e quanto possibile semplice, idee strutturali in evidenza, meno roba, meno confusione, meno eserciziari a parte. Sul fenomeno, naturalmente, pesa il fascino dell’apparenza e la pressione dei sistemi editoriali con i loro loquaci rappresentanti.
Siamo tornati a parlare di scuola. Su un vecchio numero di Avvenire /11.2.2014), ritrovo una citazione tratta da uno studio del filosofo Bernard Stiegler, che discute anche sull’uso dei media e sul suo effetto sull’attenzione, ci aiuta forse a chiarire le idee:
“In modo inseparabile, l’attenzione è al contempo due cose: da una parte, la capacità psichica di concentrazione al servizio degli apprendimenti (imparare la geometria è formare uno spirito attendo allo spazio in quanto tale, imparare la storia è rendere la mente attenta al passato storicizzato), ma dall’altra, solidalmente, è la facoltà sociale di prendersi cura degli altri, la gentilezza. Non si possono separare queste due dimensioni dell’attenzione. Se il filosofo riconosce il potere creativo dei social network e dei siti fondati sulla collaborazione telematica, come Wikipedia, resta molto critico invece sull’atteggiamento della politica e del mondo universitario che resterebbero, nella maggioranza dei casi, spettatori passivi di evoluzioni considerate ineluttabili”
Il discorso appare chiaro: non si insegna per trasfondere nozioni (pur necessarie nel contesto) ma per formare persone e personalità individuali, per dare capacità di apprendere e soprattutto di pensare. Anche i libri, se bene orientati, dovrebbero servire a questo, a dare una visione dei rapporti umani, del mondo e dei suoi problemi per far riflettere suscitando risposte e impegni positivi.
Domenico Volpi
La creatività è una furbacchiona che prende un po’ là, dall’esperienza diretta e dai libri, per andarsene poi su strade nuove.
Entra in gioco allora il pensiero divergente:
quello che fa fare una capriola alla realtà o a una fiaba o racconto e li fa vedere da un punto di vista diverso…
quello che è curioso e non si accontenta della prima risposta ma ne vuole altre…
quello che cerca risposte nuove e originali…
quello che sa inventare una barzelletta, una battuta, una storia buffa…
quello che alla fine di un racconto comincia a immaginare il seguito…
quello che cambia il finale di una storia a modo suo…
quello che comincia a cambiare le caratteristiche di un personaggio e quindi cambia tutta la storia…
quello che gioca con le parole senza averne soggezione…
Cominciare a scrivere storie
II giorno dopo se ne stava seduta in giardino su un grosso vaso rivolto al contrario, Miranda. Lo scrittore portoghese si era sistemato su una vecchia sdraio accanto a lei e, sebbene il sole inondasse il giardino, aveva sulle ginocchia una coperta di velluto nero, e su quel nero spiccava il rosso del pelo di Fernando.
– Ma. tu, come hai cominciato a scrivere storie? – chiese di colpo Miranda.
– Chi, io? – rispose Cardoso sorpreso, come se non ci avesse mai pensato.
– Sì, tu. Perché hai deciso di scrivere i libri?
Lo scrittore guardò a lungo un punto preciso del mare, come a cercare lì dentro una risposta e poi disse:
– Beh, chi scrive storie forse in fondo lo fa per rimanere come te, un’adolescente. Per sempre.
– Come sarebbe?
– Sarebbe che gli scrittori hanno bisogno di stare in questo mondo incantato, un mondo dove non è ancora accaduto nulla, dove tutto può ancora accadere.
– È così che nascono le storie?
– Sono così, le storie. Non sai mai da che parte ti porteranno, cosa combineranno i tuoi personaggi. Io entro nella testa di quel personaggio e racconto con la sua voce, sento come lui. E questo mi aiuta un po’ a capire meglio le persone anche nella vita. E invento posti strani, che non ci sono mai stati ma che ci sarebbero potuti essere e che non è detto che non ci saranno da qualche parte, prima o poi. Mondi più belli di questo, più giusti, più felici.
E quando il tuo libro è finito, quando hai scritto anche l’ultima parola e messo l’ultimo punto, anche il divertimento allora è finito, ragazzi, non c’è più niente da dire, non c’è più nulla che possa accadere. La storia è finita, si ridiventa adulti e le cose non cambiano più, o almeno non cambieranno certo grazie a te.
Il mare era un fremito immenso, sordo, e Cardoso ebbe un brivido improvviso.
– Io ho cominciato a scrivere un giorno che avevo voglia di piangere – disse come tra sé Miranda, il mento appoggiato sulle mani, i gomiti sulle ginocchia. – Scrivere mi fece stare un po’ meglio. Tu pensi che scrivere aiuti a guarire?
Ma a questa domanda Cardoso taceva e sorrideva, e la letteratura con lui.
Laggiù, lontano lontano, c’era il mare.[…]
(Antonio Ferrara, “PIEDI”, Liguori editore, Napoli 2006)