Dalla solitudine all’allegria
Negli scorsi numeri abbiamo dedicato molte righe – cioè molte parole scritte – alla parola tout court, intendendo non solo l’importanza della lettura, da parte dei genitori e degli insegnanti, orale di libri e giornalini ai bambini ma anche il mondo della radio per gli adolescenti e quindi il recupero della parola nelle canzoni d’autore, con veri testi poetici, e nelle filastrocche del rap. Naturalmente indichiamo ed esaltiamo il valore dell’oralità, del conversare tra persone reali. Faccia a faccia, però, ché i rapporti virtuali hanno un alto tasso di ambiguità. In un universo di giocattoli elettronici che si autogestiscono, di case piccole senza spazio, di città senza luoghi adeguati e di tablet, occorre che genitori e insegnanti si preoccupino di stabilire relazioni umane dirette per bambini e ragazzi che in futuro dovranno essere capaci di relazionarsi con colleghi e superiori di lavoro.
Cito quanto ha detto Silvano Petrosino su Avvenire (21/3/15):
“Si può parlare senza comunicare, così come si può conversare senza dialogare; da qui le mistificazioni in questione: confondere uno scambio di messaggi con una comunicazione, interpretare un mero contatto come un segno di dialogo. […] In effetti, fidandosi di internet ci si può dimenticare di che cosa sia uno scrittore accontentandosi di riuscire ad essere un prolifico scrivente, così come ci si può dimenticare di che cosa sia un lettore accontentandosi di saper navigare tra le informazioni consumandole con voracità, e anche ci si può dimenticare di quanto sia difficile e drammatico comunicare con l’altro accontentandosi di riuscire in ogni istante a messaggiare con lui. Non si devono criminalizzare la rete e il digitale ma neppure si può sorvolare sulle illusioni, sulle allucinazioni e sui fantasmi che continuano a coagularsi intorno ad essa.”
Attenzione senza pregiudizi
Forse si tratta di pregiudizi nutriti da un uomo anziano, anzi ormai antico, che ha vissuto appassionatamente nel mondo cartaceo. Forse sono un amante troppo appassionato del bello stile e un pignolo del dire. Forse, ricordando i miei trascorsi di animatore oratoriano e di dirigente di campi scuola, soffro nel vedere ragazzi e anche bambini piccoli chinati su smartphone e telefonini e isolati dai compagni che hanno accanto e che sono occupati nello stesso modo. Forse perché ho sempre amato tutte le originalità (non l’esibizionismo di esse) e odiato le banalità. Forse come giornalista, apprezzando tutti i nuovi media per le loro immense possibilità informative e comunicative ed essendo abituato alla sintesi dei pensieri, mi irrita lo spreco di comunicazioni inutili e vuote protratte per ore. Forse perché, come educatore, mi preoccupo dei contenuti trasmessi (anche il nulla è diseducativo: l’esistenza non è fatta per il nulla). Forse per tutto questo e altro ancora, concordo con Alessandro Bergonzoni, scrittore e umorista, quando afferma:
“Credo che l’espressione su internet abbia dentro qualcosa di suino: sembra quasi che non butti via niente e invece si butta via molto: Siamo ammalati di abuso, di sopravalutazione, di una malattia grave che chiamano morbo di cronac. Con un tweet diciamo dove siamo o cosa mangiamo, cosa viviamo in quel momento. Siamo collegati al mondo ma non alla sua grandezza. Siamo collegati a gente in Canada, in Nuova Zelanda o a Timbuctu, ma non siamo collegati con le anime. Oggi la parola è vilipesa, stuprata, alle volte maledetta e assassinata, e ha bisogno di riprendere forza nella scrittura, nelle scuole, andando a parlare negli asili per poter raccontare agli scrittori, ai medici, agli ammalati, ai legislatori di domani che noi con le parole siamo governanti di noi stessi, presidenti, votanti. Ogni volta che pensiamo certe parole, noi decidiamo: è un referendum contro la normalità del banale, che ferisce e uccide, molto più della complessità. Il complesso riguarda il tutto, mentre oggi si parla poco del tutto e si vuole solo apparire.” (Segno, marzo 2015)
Il virus della solitudine
Sia chiaro: non sono ostile ai nuovi media, uso internet quando mi occorre un’informazione veloce, non mando messaggini perché preferisco parlare con il cellulare, ricorro a Google, ma quando ho bisogno di notizie più ricche e più esatte ricorro ai libri. A proposito di esattezza: quando mi occupo di storia (e mi accade spesso, come mia personale passione), so che ciò che trovo su un libro è la visione di uno storico e tengo conto del suo orientamento, mentre su Google o altra fonte virtuale non ho idea di chi abbia formulato le informazioni e come siano state eventualmente strumentalizzate: in ambo i casi, le prendo con le molle, ma su internet non so neppure che cosa realmente sto raccogliendo.
Spero appaia chiaro che apprezzo e uso i nuovi media, ma suono l’allarme per due motivi: a) troppi studenti o altri li prendono per verità assolute, e troppi le copiano senza criticare, confrontarle, elaborarle; b) il loro abuso è sempre più generalizzato: non siamo certamente il Paese più ricco, eppure siamo la Nazione con la più alta proporzione di smartphone del mondo.
Nel Paese del sole, della canzone, della lunga vita, della bellezza dell’arte e della natura, chiediamoci da dove nascano la solitudine reale e il bisogno di comunicazione virtuale dei nostri adolescenti.
Lettura, intelligenza e allegria
Non so resistere al parlare ancora di lettura, perché ho ritrovato due affermazioni simpatiche in favore di questa attività intellettuale e spirituale. Mi pare chiaro il fatto che queste note non sono rivolte a convincere gli insegnanti o i bibliotecari o chi ci legge in genere, ma tendono a informare gli uni e gli altri e a fornire argomenti da trasmettere agli allievi. Pare che vi sia uno stretto rapporto tra la felicità (che è quanto ognuno di noi desidera) e la lettura. Lo affermano la sapienza antica e le moderne ricerche di psicologia. Mauri Spagnol, sulla base di una ricerca CESM e Università Roma Tre, in un’intervista di Annachiara Sacchi, ha dichiarato: :
“Anche la scienza conferma che chi legge libri è più felice. Hanno usato espressioni simili Cicerone, Kafka, Salinger, Virginia Woolf (“talvolta penso che il paradiso sia leggere continuamente, senza fine”). Ma questa volta il tema è scientifico, e un’indagine lo dimostra con numeri, dati e tabelle: leggere rende felici. E aiuta ad affrontare meglio la vita. […] “Come si deduce dai numeri, chi legge impiega in modo più ricco e articolato i suoi momenti di libertà dal lavoro, è curioso, sa assaporare e scegliere le attività che gli danno gioia. Inoltre leggere amplifica le emozioni positive, consente di affrontare gli eventi negativi senza perdersi.” (Corriere della Sera 21/10/2015).
Se ne ricava, quindi, che chi frequenta i libri è più ottimista, meno aggressivo ed è psicologicamente predisposto ai pensieri e alle azioni di positività.
Ma come leggere?
Una volta, anche nelle scuole si ammiravano e s’incoraggiavano i “divoratori di libri” (confsso di aver fatto parte di tale categoria). Oggi si raccomanda giustamente una certa pacatezza. Negli USA, un professore di letteratura inglese ha pubblicato il saggio Slowly reading, oggi disponibile in Italia. (Leggere con lentezza nell’epoca della fretta, Garzanti 2015, 32 p.). L’Autore vede la lettura lenta come forma di ecologia mentale: “È una disciplina attiva. E più attivamente leggerete più rivaluterete anche voi stessi. Si tratta di una lettura fatta non per ottenere informazioni ma per capire e provare piacere.” Sarebbero ben quattordici le regole da seguire in proposito: essere pazienti; porre le domande giuste; identificare il narratore; cercare di capire lo stile; osservare con attenzione gli incipit e le conclusioni; collocare la storia nel tempo e nello spazio; usare il vocabolario quando occorre; rintracciare le parole-chiave; scoprire il pensiero dell’A.; essere sospettosi; individuare le parti; prendere appunti; esplorare sentieri diversi; aver voglia di leggere, dopo, altri libri.
Il movimento Slow reading si sta felicemente diffondendo anche in Italia. Riflettiamoci.
Domenico Volpi
- La nostra professoressa di italiano quando voleva ottenere una classe totalmente assorta e silenziosa, tirava fuori dalla borsa un libro, e cominciava a leggerlo dal punto in cui si era interrotta la volta precedente. E Il barone rampante funzionava, accidenti se funzionava. Ho detto che era una donna intelligente: mai si sarebbe sognata di usare quel capolavoro come pretesto di assurdi esercizi semiologici e narratologici, che hanno il solo scopo di trasformare a vita un adolescente in un nemico giurato dei libri e delle librerie. […] Entravamo tutti insieme in un mondo poetico. Un mondo, vale a dire, dove si realizza una coincidenza perfetta della libertà e del destino, o se si preferisce del mondo e della capacità di ognuno di immaginarlo. (Emanuele Trevi, su Corriere della Sera del 2/10/2015)